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Il taccuino di Martin Sileno (4)

– mi scuso per la lenzuolata di testo pesante –

Una notte un centurione Romano, durante l’assedio di Gerusalemme del 70, sta strisciando ferito in un vicolo. La presa della città e la distruzione del Tempio arriveranno, ma alcuni drappelli, guidati da condottieri valorosi, sono intanto riusciti ad infiltrarsi nella città, cercando di facilitare l’accesso degli assedianti. Sono stati sorpresi, e brutalmente decimati. Dispersi tra le vie di Gerusalemme, feriti o spaventati, i soldati romani vengono cercati con foga e fatti a pezzi. Il nostro centurione ha appena perso gli ultimi uomini del suo drappello, e si è salvato a stento dalla folla. La città risuona delle urla dei morenti e delle grida inarticolate delle folle giudaiche alla ricerca dei Romani.

Nel vicolo, steso nel fango, c’è un vecchio mendicante. Sporco, affamato, coperto di piaghe e cicatrici, vede arrivare il romano.

Il romano lo scorge, e con la daga stretta nella mano insanguinata gli si fa incontro. perfino del delirio causato dalla ferita e dal dolore, sa che basta un grido del vecchio per attirare le sentinelle. Eppure il vecchio lo fissa in silenzio, e nel suo sguardo il romano vede che non gli importa affatto cosa accadrà. Gli si trascina accanto, sempre tenendo la daga pronta. Si fissano. E nella notte illuminata a da torce e squarciata da grida, iniziano a parlare.

Dapprima il romano lo minaccia, vuole una mano a mimetizzarsi nella città. E’ ferito, da solo non ce la fa, vuole che il mendicante lo aiuti a non farsi trovare.

Il mendicante lo manda a farsi fottere, fregandosene della lama.

E continuano a parlare, il romando sempre più debole, il mendicante sempre disinteressato e triste, di una tristezza che succhia la vita.

Il delirio del romano peggiora, la debolezza lo assale. Il mendicante lo tormenta, preannunciandogli la morte, le ferite sono troppo gravi. O qualcuno lo troverà. e sarà peggio.

Il romano perde quasi i sensi. Sente qualcuno che inizia a ispezionare il vicolo, cercandolo. Ma è troppo debole per fare alcunché. Eppure il mendicante lo copre coi pochi cenci muffiti che ha, lo sporca di fango e gli si rannicchia accanto. Quando le sentinelle passano, vedono solo due mendicanti che dormono nella polvere.

Il romano si sveglia poco dopo, è ancora notte e la febbre inizia consumarlo.

Il mendicante nella sua disperazione disinteressata, racconta che ha passato quasi trenta anni nelle carceri romane della città.  Non dice per cosa, nonostante il romano lo chieda.

ma quando gli chiede perché sia disperato, la risposta non è per la vita miserabile che sta conducendo o per la lunga prigionia, ma per aver fallito, aver deluso suo padre e aver distrutto tutte le responsabilità che giacevano sulle sue spalle.

E dibattono sul senso di una vita, nonostante la perdita di no scopo a fronte del quale tutto sembra inutile. Nonostante il romano racconti della perdita del figlio primogenito, o dei suoi uomini che gli sono morti tra le braccia nel corso degli anni per colpa delle sue scelte sbagliate, la disperazione del mendicante pare arrivare da una perdita, un fallimento ben maggiore.

potrebbe andargli peggio

Questa è la storia. Tutta da giocare con i dialoghi. Certo, ogni tanto passerà qualche sentinella, o il romano si infurierà e minaccerà il mendicante. Ma c’è una sola scena, e due soli personaggi, accasciati nella polvere di un vicolo di Gerusalemme.

Il mendicante è Gesù. Durante l’interrogatorio con Pilato ha avuto un cedimento, un attimo appena, quando Pilato stava ascoltando le richieste dei sommi sacerdoti, Gesù sussurrò di non voler morire. E Pilato lo esaudì. Gesù capì di aver fallito e cercò urlando, piangendo, minacciando, di farsi crocifiggere lo stesso, ma pilato pensò che fosse pazzo, ed ebbe pietà di lui.

Lo fece battere e fustigare nella pubblica piazza, davanti ad una folla che lo copriva di sputi e cercava di lapidarlo. Vedendo l’agitazione della folla, Pilato allora decise che era più sicuro imprigionarlo. E così fece. per 30 anni Gesù languì nelle carceri romane, sentendo l’essenza divina abbandonarlo per colpa del suo fallimento, sentendo il peso della dannazione dell’intero genere umano, per colpa della sua vigliaccheria.

E invecchiò, divenne, cinico, crudele; poi disperato, senza più voglia di vivere, ma terrorizzato all’idea di trovarsi al cospetto del padre che aveva così tristemente deluso. E infine fu solo vuoto, senza più scopo o scintilla di interesse. E quando lo gettarono fuori, solo un vecchio come tanti oramai, si limitò a trascinarsi da una via all’altra, mendicando quando la fame era troppo dolorosa, mentre come il famoso mendicante dei vangeli, i cani venivano a leccagli le piaghe.

Ma sarà proprio parlando al romano che riuscirà a completare ciò per cui era venuto.

Il romano capisce a stento quanto gli viene detto, per lui la religione ebraica è solo un guazzabuglio di regole assurde e paure primordiali. Ma le parole del vagabondo, la sua disperazione, lo toccano in profondo. Lui scambierà tutto il scorso sul Padre e sulla remissione dei peccati per tutt’altro. Ma coglie bene il discorso della nuova venuta. L’arrivo del giudizio per tutti gli uomini, a condannare chi è indegno e ha tradito i suoi valori. Nella sua mente però i valori sono quelli di ROMA, e il decadimento è quello a cui negli ultimi cento anni gli imperatori la stanno trascinando.

Gesù alla fine si sacrifica, gettandosi in mezzo ad una truppa di sentinelle per dar modo al romano di scappare. E con l’ultimo respiro gli sorride e gli dice “và, la TUA fede MIha salvato“.

Le ferite del romano a sentire ciò guariscono, e una fiamma di Spirito Santo discende su di lui. Ora è pronto, tornerà nella sua Roma, e la incendierà con le sue parole. Per riportare l’impero ai fasti di Augusto, così che l’aquila possa allargare le sue ali su tutta la terra.

Qua la difficoltà è rendere gradevole l’alterco tra i due, lasciando che comunque le informazioni necessarie filtrino tra le battute.

Posso farcela? Intanto me la appunto, che questa idea me la stavo perdendo…